Uno dei problemi principali di questa vicenda della pandemia è la comunicazione. La comunicazione è stata sbagliata da tutti i lati e in tutti i Paesi occidentali. Ha sbagliato l’organizzazione mondiale della sanità, i virologi-star, il comitato tecnico-scientifico, le procure, Macron e Johnson, Trump e Merkel, Von der Leyen e Lagarde. Inutile dirlo, hanno sbagliato comunicazione anche il governo italiano e le regioni – e spesso persino i comuni – in molti modi e in molti casi, prima del capolavoro del decreto dei “congiunti”. Ovviamente, hanno spesso sbagliato i mezzi di comunicazione di massa e, in ultimo, noi cittadini nelle eterne chiacchiere sui social e nelle purtroppo limitate relazioni personali.
Le questioni che sorgono sono paradossali: possibile che in questa società della comunicazione non abbiamo ancora capito come si comunica? O sono i mezzi di comunicazione attuali – la loro natura e la loro velocità – che ci portano a sbagliare sempre? O l’evoluzione umana ha semplicemente imboccato la via del regresso?
La risposta ha almeno due lati importanti, che sarebbe meglio prendere in considerazione per il futuro.
Da un lato, a riguardo della comunicazione manca ogni educazione e formazione. La maggioranza pensa che la comunicazione si possa far bene con un po’ di buon senso e uno spruzzo di creatività e, soprattutto, che si possa fare senza studiare. La comunicazione sarebbe qualcosa di molto più banale di una ricetta di cucina o di un qualsiasi sport. Si consultano siti e tutorial per tutto, ma ci si può permettere di fare rilasciare dichiarazioni alle nazioni senza preparazione. Tanto per uscire dal nostro stretto giro italiano, si pensi che cosa è costato al miliardario americano Bloomberg l’essersi presentato a un dibattito per le primarie democratiche senza aver fatto le prove adeguate: centinaia di milioni buttati e campagna elettorale finita prima di cominciare.
L’altro lato del problema, però, è il tipo di comunicazione che si insegna. L’impostazione generale degli studi di comunicazione, a partire da quelli elementari sul linguaggio, è che in fondo i significati dei segni con cui comunichiamo e delle parole, su cui si basa molto della comunicazione pubblica, siano convenzioni, invenzioni della mente umana, costruzioni sempre modificabili. La comunicazione sarebbe soprattutto un gioco di astuzia, di capacità di stupire sempre con qualcosa di nuovo, a prescindere da ogni significato. Invece, gli studi più approfonditi fanno vedere che i significati si trovano dentro i segni e dentro le parole. Non solo: la parte di invenzione e di costruzione creativa è frutto di approfondimento della conoscenza dei segni e degli oggetti. La comunicazione è un atto di conoscenza, che si basa sulla logica dei segni e non sull’istinto del nuovo.
Per usare i termini della filosofia, si tratta dell’antica battaglia fra nominalismo e realismo, cominciata nelle scuole di logica del Medioevo. Purtroppo, per ora, il nominalismo è dominante, nonostante negli studi specialistici sia logorato ormai da molti decenni. Nella vita quotidiana, il nominalismo si riflette nell’approssimazione dell’uso delle parole, nella mancanza di coerenza tra messaggi e mezzi della comunicazione, nella triste debolezza nell’execution delle molte parole pronunciate. Purtroppo, le conferenze stampa del governo italiano sono state da manuale in questo senso dalla mancanza di puntualità all’ambiguità dei termini, dall’uso di mezzi inappropriati – come rivolgersi alla nazione parlando da una piattaforma privata americana – all’incoerenza tra misure annunciate e realizzazione, dall’approssimazione nella scaletta dei contenuti all’incerto palinsesto delle domande. Tuttavia, se può consolare, non hanno fatto tanto di meglio nell’intero mondo occidentale, tutto figlio della medesima impostazione sulla cultura della comunicazione, a prescindere dall’essere di destra o di sinistra, governanti o oppositori. Forse, nel ricostruire, potremmo dedicare un po’ di attenzione alla necessità degli insegnamenti di comunicazione e ai loro contenuti.
Di Giovanni Maddalena Su “Il Foglio”